Fogli di carta…

di luca chiarei

mani modotti

Tina Modotti – mani di operaio con badile, 1926

> Andrea Tarabbia La buona morte, Manni 2014

Non tutti i libri sono “belli” da leggere, non tutti i libri sono piacevoli ma non per questo non vale la pena andare oltre lo sforzo che ci costringono a compiere per arrivare all’ultima pagina. Lo spirito delle recensioni del mio blog è quello di segnalare i testi la cui lettura in qualche modo mi ha cambiato, ha fatto di me una persona diversa da quella che ero alla pagina uno (il cambiamento, piccolo o grande che sia, dovrebbe essere a mio parere il fine ultimo della letteratura). Il libro di cui parlo oggi è dunque uno di quelli: si tratta di Andrea Tarabbia ed il suo “La Buona morte” Manni editore. Un testo a cui sono arrivato grazie ad un input esterno ricevuto da chi, a me molto vicino e molto più giovane, si trova ad affrontare più o meno direttamente questo tema; altrimenti non so se sarebbe mai passato tra le mie mani. Leggerlo in molti passaggi è stato faticoso: mi sono quasi dovuto imporre di farlo, ma è stata una fatica salutare e benefica.


Già dal titolo si potrebbe avere un primo disorientamento per quello che potremmo considerare un ossimoro: come è possibile che la morte sia buona? La contraddizione leggendo il libro si rivelerà subito apparente. Credo che il merito principale di questo testo è a mio parere duplice: da una parte quello di affrontare il tema della morte, generalmente esorcizzato nella quotidianità dalla nostra vita e dal mainstream culturale contemporaneo. Philippe Aries, citato, sostiene che la morte ha sostituito il sesso dal posto di primo tabù sociale e direi che ci possiamo credere senza sforzo; dall’altro quello di riaffermare il diritto, laicamente inteso, che la morte sia un momento nel quale la propria dignità e integrità personale non venga meno ma costituisca un passaggio coerente con la propria vita fino a quel momento trascorsa, in poche parole una scelta anch’essa.
In generale viviamo in una contemporaneità che si presume eterna e da questa percezione, premessa esistenziale, discende poi tutto il nostro agire quotidiano. Eppure è proprio il fatto che la nostra esistenza individuale abbia un inizio e una fine che si carica di senso tutto quello che scegliamo di essere e fare nel “frattempo”, che lo rende significativo. Mi chiedo se la rimozione anche in questo ambito di questa consapevolezza non rappresenti un altro aspetto della perdita del concetto di limite che caratterizza, nello sviluppo economico capitalistico, il depauperamento inarrestabile delle risorse dell’unico pianeta a nostra disposizione.
Tarabbia ci dice subito esplicitamente che il compito della letteratura è “… quello di affrontare il grande buco nero che è l’ignoto, la morte”, quell’esperienza che nessuno di noi può narrare ma “…esperire soltanto attraverso gli altri”. La letteratura e la poesia dunque come strumento e antidoto alla rimozione del limite esistenziale della propria presenza vitale. Dovrebbe essere scontato e a pensarci bene certamente non è una novità. Eppure – nel libro è ben documentato – non poco fu l’imbarazzo per l’iniziativa di chi propose, a sostegno della vicenda Englaro, che ciascuno scrivesse pubblicamente il proprio testamento biologico. Pochi aderirono e ancora meno tra scrittori, artisti e personalità della cultura. Chissà se oggi nell’imperversare di eventi poetici e reading e antologie, a qualcuno verrà in mente affrontare questo tema, di chiedere alla intelligenza di ognuno la rappresentazione artistica, in versi o immagini, delle proprie volontà in rapporto alla propria morte immaginata o desiderata. I passaggi nei quali la letteratura ha affrontato senza pudore il tema in questo libro non mancano: dalla morte di Ivan Ilic di Tolstoj alla narrazione del Lazzaro di Leonid Andreev, un autore russo dei primi del 900. C’è da domandarsi se oggi, nel contesto culturale contemporaneo, sarebbe possibile una opera come la Commedia, incentrata sull’osmosi tra la vita e la morte, e dove il Dante cristiano colloca a guardia del Purgatorio un suicida, per di più non cristiano come Catone, proprio in virtù della sua scelta di rinunciare alla vita per coerenza non solo personale ma addirittura politica al proprio percorso esistenziale. Differenziandolo per questo dagli altri suicidi collocati invece nell’Inferno. E non sarà casuale che un autore culto della letteratura fantascientifica come P.K.Dick ci faccia vedere la rimozione di cui sopra immaginando in “Ubik” una società futura nella quale i defunti non lo sono mai e sono collocati in grotteschi “mortuari” nei quali i vivi continuano tecnologicamente ad interagire con loro.
Tarabbia ci ricorda poi le vicende emblematiche legate ai casi Englaro e Welby, descrivendoli nei loro aspetti tecnici ma anche biografici grazie alla narrazione di coloro che gli sono stati vicini fino all’ultimo. In quegli anni furono al centro dell’attenzione mediatica e di un dibattito che, per la divaricazione laici/cattolici presente nel nostro paese, non ha in alcun modo segnato un progresso nella coscienza collettiva. A distanza di anni da quella discussione la questione del fine vita nel nostro paese è ancora, dal punto di vista politico e legislativo, ferma e definibile negli stessi termini: la legge di iniziativa popolare per il diritto all’eutanasia continua ad essere rinviata a data da destinarsi.
Sul versante della riaffermazione del diritto alla buona morte, nella riflessione di Tarabbia questa diventa lo snodo di cui riappropriarci lucidamente e non un evento da consegnare ai protocolli medici fondati sulla semplice esistenza biologica del soggetto, assunta come valore assoluto, non importa come e quanto consapevole. Se rinchiuderci o meno in un corpo nel quale non sia più possibile riconoscersi, a causa di malattia o eventi traumatici, oppure uscirne attraverso l’eutanasia, non può non fare parte delle scelte disponibili all’individuo. Fa riflettere in questo senso la motivazione del rifiuto della Chiesa cattolica, tramite il vicariato di Roma che Tarabbia riporta, di concedere le esequie religiose a Welby proprio perché il suo desiderio consapevole ed espresso: “rivoglio la mia morte, niente di più e niente di meno”, contrastava con la presunzione di “mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso” per la quale i suicidi secondo la morale cattolica assumono la loro scelta e per questo “fatti salvi”.
Consiglio poi di ascoltare la conversazione/recensione del libro registata su Fahrenheit, la nota trasmissione di radio tre al seguente link e per chi vuole approfondire ulteriormente il blog di Andrea Tarabbia.