Gli incontri su Fortini…
di luca chiarei
Colgo l’occasione della disponibilità dell’amico Ennio Abate per riportare anche in questo blog i suoi appunti scritti in occasione di questi incontri. Il primo è sull’incontro:
“Fortini e Adorno”
con l’intervento di Ezio Partesana
A seguire potete leggere la relazione dello stesso direttamente dal sito di Poliscritture in occasione dell’incontro “Le disobbedienze dimenticate di F. Fortini” e magari discuterne…
” In questo secondo incontro dei «Ragionamenti su Fortini» Ezio Partesana – brillante, provocatorio, attentissimo, da regista di teatro qual è, a dosare i toni del discorso e a tener desta l’attenzione del pubblico – ha parlato del rapporto tra Fortini e Adorno.
Due le premesse: – Fortini non era un filosofo; – i due erano entrambi «marxisti atipici» (e quindi osteggiati dai presuntuosissimi cerberi dell’ortodossia marxista che ai loro tempi bacchettavano a tutto spiano dai piani alti dei partiti comunisti europei).
Del pensiero complesso e potente di Adorno Partesana ha ricordato il clichè, divulgato in Italia da Gaber, il quale nelle sue canzonette “intellettuali” a quel filosofo aveva attinto a piene mani: “tutto va male, non ce la caviamo, non c’è scampo. E – ben più importante – l’analisi (fondamentale) dell’industria culturale. Che però aveva appena sfiorato (negli anni Cinquanta-Sessanta) le menti e i cuori degli intellettuali umanisti, rimasti in Italia, anche quando riciclatisi in comunisti (all’italiana), devoti a don Benedetto Croce.
Fulcro di quest’analisi adorniana era la constatazione che, nella nostra epoca (capitalistica), anche la cultura era scesa giù dai cieli luminosi delle Idee per diventare prosaicissima merce. La quale si compra e si vende. Ed ha soprattutto un «valore di scambio» e molto meno un «valore d’uso». Perciò ha ricordato Partesana, sventolando un libro che aveva a portata di mano (pare fosse «Im tempo», una sua raccolta di poesie pubblicata dalle edizioni CFR), «questo libro non differisce da un maglione di Benetton». (Quando – aggiungo io – arriva, se arriva, sul mercato).
Insomma, il passaggio dalla fase precedente – quella preindustriale, quella in cui la cultura prosperava grazie al mecenatismo o all’intervento “illuminato” di forze politico-sociali che si pretendevano “alternative” o “rivoluzionarie” (quelle risorgimentali del primo Ottocento, quelle dei partiti socialisti e comunisti più nel primo Novecento che nel secondo) – alla fase capitalistica dell’industria culturale ha fatto sì che il valore d’uso della merce-cultura discendesse a zero (o quasi) e salisse invece in alto, sempre più in alto, il valore di scambio. E che la selezione delle opere (dei prodotti culturali, della merce che si porta addosso quasi nostalgicamente, come etichetta, l’aggettivo ‘culturale’) viene fatta, appunto, dai manager. E, dunque, non mirando più alla qualità (culturale) ma alla vendibilità o commerciabilità. Ecco perché schizzano in alto le vendite dei libri di Fabio Volo o della Littizzetto o di Camilleri e i nostri libretti di poesia restano sconosciuti e da regalare agli amici.
Gli stessi manager, che programmano la visibilità di Umberto Eco condannando all’invisibilità altri scrittori, impongono ai tantissimi che, per tirare la pagnotta, fanno i “lavoratori della conoscenza” (si dice così oggi) e cioè i traduttori, gli sceneggiatori, gli editor – insomma gli intellettuali di massa mal pagati e trattati a pesce in faccia se appena pretendono di pensare – di tradurre, sceneggiare, correggere dattiloscritti o file sottomettendosi alle loro regole, quando non ai loro tic o capricci.
Tutto questo Partesana, che è stato studioso di Adorno, ce l’ha ricordato per dar ragione al grande filosofo tedesco che parlò di «vita offesa».
Siamo dunque tutti consumatori che proiettiamo, sotto la spinta delle «bugie seducenti» della pubblicità, i nostri desideri sulle merci che hanno un alto valore di scambio perché costretti ad una “vita umiliata”?
Pare di sì.
Si potrà mai uscire da questa sottomissione all’industria culturale?
Mica facile!
Perché in questa sottomissione c’è anche un’adesione *necessaria* a quelle «bugie seducenti». Perché – ha spiegato Partesana ricorrendo al concetto di ideologia di Marx – quella percezione della realtà distorta è una sorta di “autodeformazione” ma serve a mantenermi in vita. E’ – aggiungo io – come aria inquinata che debbo comunque respirare, non trovandone in giro di pulita.
Si potrebbe uscire da questa sottomissione e da questa ideologia solo cambiando i rapporti di produzione.
Era il classico uovo di Colombo proposto da Marx, nientemeno la rivoluzione socialista.
Ma oggi è diventata una bestemmia, un tabù.
E persino il buono e intelligentissimo Adorno già a i suoi tempi non la prendeva sul serio, convinto della irrimediabilità della situazione in cui era stata cacciata l’umanità. Al massimo, a conservare un qualche carattere eversivo, restavano per lui l’arte, la poesia, la musica (ovviamente solo d’avanguardia!).
E, in proposito, Partesana ha ricordato l’analisi che Adorno fece in «Dialettica dell’illuminismo» della figura di Odisseo (Ulisse) alle prese con le Sirene. Da una parte l’eroe-signore, che, forte della sua ragione, si fa legare al palo pur di ascoltare quel canto affascinante e mortale. Dall’altra i marinai-servi con le orecchie tappate dalla cera che remano e lavorano e nulla odono di quel canto.
Servi e padroni per sempre, dunque?
E Fortini?
Beh, forse proprio perché non filosofo, Fortini è stato, sì, adorniano, ma *cum grano salis*, mai accettando la conclusione di nobile impotenza di Adorno. Perché – si è accennato nella coda di dibattito finale – ha dato ascolto (troppo secondo alcuni) ad altre campane: Brecht, Lukács soprattutto, che di Adorno furono antagonisti, e – da non dimenticare – il “demoniaco” (!) Lenin.