Autoscatti autocritici…2

di luca chiarei

Piet Mondrian da: https://libreriamo.it

“il compito prioritario degli studi letterari è mettere in rapporto buccia e polpa, interno ed esterno, testo e “mondo” – Pier Vincenzo Mengaldo

Proseguo questo percorso con Elena Gramman, autrice acuta e tagliente che dal suo blog “dalla mia tazza di te” recensisce libri e commenta quello che avviene nella politica e nella cultura. Senza diplomazie e giri di parole con lei si arriva subito al punto, che che piaccia o meno. Anche lei l’ho “conosciuta” in rete per frequentazioni in comune e per una breve collaborazione con poliscritture. In particolare mi aveva colpito la recensione al libro di Ann Cotten “Sonetti del dizionario delle parole di origine straniera” (traduzione italiana dal tedesco), a questo link, autrice notevolissima che non conoscevo affatto.

A seguire lo scambio di email. Anche a lei ho inviato una selezione di testi che inserisco per comodità, in quanto sono tutti testi sparsi sul blog. Rinnovo l’invito a tutti coloro che volessero fare altrettanto o nei commenti o scrivendomi a luca.chiarei@alice.it. Saranno ben accolti e pubblicati senza censure…

Io: Gentile sig.ra Gramman, avendo partecipato, alcuni anni fa, alla precedente redazione di Poliscritture e continuando comunque a frequentare occasionalmente il blog ho avuto modo di leggere i suoi interventi e conoscere il suo blog. Come lei per divergenze politiche su alcune tesi di Ennio, diverse da quelle che vi hanno messo in conflitto, ne sono poi uscito. Le scrivo perchè apprezzo il suo modo di esercitare la critica letteraria sia di prosa che, più raramente se non sbaglio, di poesia. Per questo le chiedo cortesemente se è disponibile a leggere una decina di miei lavori poetici. Sono pressoché certo che mi “massacrerà”, ammesso e non concesso che potro inviarle il mio lavoro. Non mi consideri per questo un “masochista” letterario. Sono semplicemente una persona alla quale piace essere costantemente in discussione e che ritiene la critica la grande assente dal panorama culturale “mainstream” di oggi. Direi che al momento mi pare superfluo aggiungere altro. Si senta libera di rispondermi in qualsiasi modo e naturalmente anche di non farlo.

Gramman: Gentile Sig. Chiarei, la ringrazio per il suo apprezzamento. Personalmente mi considero una dilettante allo sbaraglio. Ma se vado volentieri allo sbaraglio sulla prosa, non così sulla poesia. Le mie conoscenze di poesia contemporanea o anche già secondonovecentesca sono scarsissime. Quel paio di articoli pubblicati su Poliscritture, se ben ricordo, erano traduzioni corredate da una breve introduzione. Quello che mi capita di leggere di poesia italiana contemporanea mi appare spesso difficilmente comprensibile e sarebbe per me impossibile da valutare. Mi mancano proprio i termini di confronto. Chiarito questo, mi sembra brutto dirle che non voglio leggere i suoi testi. Se le fa piacere, me li mandi pure. Se poi però non sentirà niente, vorrà dire che per i sopra specificati motivi non ho niente da dire. Scrivo questo non per presunzione o per cattiveria, ma perché un po’ di tempo fa Antonio Sagredo mi ha mandato – un po’ proditoriamente bisogna dire – un racconto di oltre cento pagine che di fatto è una poesia barocca in prosa di oltre cento pagine. Probabilmente di grande qualità, ma troppo per le mie forze. Così non gli ho mai detto niente. Però poi rimane un po’ di disagio. Bene, questo è tutto. Ora veda lei…

Io: Gentile signora Gramman, innanzitutto mi scuso per il ritardo con il quale le rispondo, non sono solito agire in questo modo ma è stato un periodo complicato; non si preoccupi, né se non avrà niente da dire sui miei versi né della lunghezza degli stessi. Non sono un “autore” molto prolifico, le allego solamente una decina di testi che, messi insieme, non fanno neanche la metà della metà delle pagine del romanzo di Sagredo…; all’età di 60 anni compiuti penso proprio di poter reggere un silenzio alle mie velleità. Nella vita, benché stia facendo da non frequentante Lettere alla statale di Milano, faccio tutt’altro che occuparmi a tempo pieno di letteratura.

Gramman: Gentile sig. Chiarei, ora tocca a me scusarmi per il ritardo con cui le rispondo, dovuto in parte al sincero desiderio di “capire” il più possibile le sue liriche (quindi letture e riletture), in parte all’ordinaria e straordinaria amministrazione che ci si infila in mezzo.Cosa posso dire, da incompetente quale mi sento? Tenterò qualche osservazione sparsa, senza pretesa di organicità.

– E’ piuttosto evidente che sono lavori meditati, che fanno riferimento a una percezione non banale, strutturata e complessa della realtà – un campo scelto e “coltivato”, così come meditata e coltivata è l’attrezzatura metaforica approntata per dirlo. 

– Il lettore si trova in presenza di dieci testi che girano attorno a un unico tema: una disillusione urbano-consumistico-industriale che si allarga all’intera nazione, vista però quest’ultima come sostanziale rete urbana – marciapiedi, edifici, veicoli – ad esclusione quindi di natura/campagna (più o meno antropizzata), di idillio come prospettiva o come ricordo. Ci si chiede se i dieci testi costituiscano una specie di “poemetto”, cioè se si debba cercare dal primo al decimo un percorso, uno svolgimento, un inizio e una fine – per quanto provvisoria. Io ho cercato e non ho trovato, ma può essere un limite mio. Mi pare che non di svolgimento si tratti, bensì di dieci testi che delimitano una “palude” (storica più che esistenziale) nella quale il movimento non va oltre una velleità o un sogno un po’ ironico (“da grandi fare i palombari” – e notiamo che i palombari si muovono con lentezza e fatica). Con questo sarei già entrata nel merito del “contenuto”, anche se in realtà non volevo.  Se individuo come tema una “disillusione urbano-consumistico-industriale”, rischio di appiattire il suo lavoro su categorie già esplorate e non dico l’essenziale: la scelta delle immagini, dei lati da illuminare, il “taglio” che di questo vuoto fa qualcosa di individuale e particolarmente connotato, irriducibile a un concetto generale. Ma proprio sul terreno delle immagini e dell’immaginario – di cui colgo almeno in parte il fascino – cominciano per me i problemi.

– Per partire terra-terra, non mi è chiaro il senso degli spazi all’interno dei versi: cesure ritmiche? indicazioni sintattiche? passaggio ad altro nucleo di immagini? semplici pause? E i trattini? Come vede sono ancorata a una specificità dei significanti molto probabilmente superata.

Passando invece al più interessante rapporto fra lettera e metafora, so bene che al più tardi a partire da Rimbaud il significato letterale è semplicemente scavalcato e al lettore si chiede il salto immediato nel metaforico. Tuttavia questo è il motivo per cui io con la poesia contemporanea – che non può procedere che così, è chiaro – ho i miei problemi. Se infatti la strofa: “Ora a terra qualcuno dorme ancora … faranno colazione” è piuttosto chiara, le “ginocchia senza occhiali”, “i filari delle genuflessioni”, “la rivoluzione dei sonetti”, “”le piume che tirano dadi” per dirne alcune, così come quasi sempre le connessioni fra sintagmi contigui, mi risultano enigmatici. E’ per me il problema dell’arbitrarietà della metafora contemporanea e del sintatticamente ambiguo e non finito. Immagino di avere un approccio troppo analitico. Antonio Sagredo mi consigliava di non fissarmi sul singolo elemento ma di lasciarmi prendere dal flusso. E Paul Celan (come vede lei è in buona compagnia), a chi gli diceva (con qualche ragione) che le sue poesie erano incomprensibili, suggeriva di leggerle e rileggerle molte volte. 

– Il suggerimento di Celan funziona: nonostante il permanere di certe difficoltà, e forse anche sotto l’influsso di un’attualità pesante, dopo diverse letture comincia a disegnarsi, direi quasi magicamente, il quadro di una contemporaneità in cui una serie di necessità vitali (peraltro sempre più ristrette) vengono ancora soddisfatte (“è possibile aprire l’acqua – da bere schivare le frane”, “le pantofole in gita     fuori porta / sono segno di tregua”), con un senso tuttavia di precarietà, di ‘chissà fino a quando durerà’, ma soprattutto di insufficienza, che però non sfocia sulla necessità di un’azione ma, rinunciatariamente, sull’attesa: “poi bere / del tè in fondo al mare    e poi – aspettare – poi”; o sull’illusione – quella mi pare davvero un’illusione – di poter sfuggire alla calma angoscia cambiando luogo: “ci basta cambiare la marcia / mettere la retro        uscire         andare via” – versi che a me suonano ironici. Ovviamente non c’è nessuna uscita per i “particulari”, se non l’uscita di scena definitiva, quella adombrata nei versi: “non si capisce quello che accade – altri / lo capiranno forse figli e nipoti     gli animali / ecco la tara di chi sopravvive”.

– L’io lirico è transustanziato, programmaticamente e senza cedimenti, in un “noi” (faccio fatica, mi creda, a scrivere la parolina), il che non ne fa una poesia collettiva – per l’amor del cielo – ma situa la poesia in una dimensione collettiva che è anche una dimensione politica – e questo senza utilizzare (quasi mai, e quando avviene, è in modo molto discreto) categorie politiche o sociologiche e facili commozioni/indignazioni che lasciano il tempo che trovano.

– Sulla rete orizzontale in cui si situano i suoi testi (stato della poesia italiana oggi, eventuali affinità, modelli, “debiti” ecc.) non posso purtroppo dire niente. Quindi questo è tutto, al momento.

 Ci tengo però a esprimerle il mio sincero apprezzamento per il suo lavoro.

Io: Gentile sig.ra Gramman, la ringrazio sinceramente di tutto quello che mi ha scritto, sul quale penso che l’ultima cosa che si possa dire è che provenga da una persona incompetente. E’ mia intenzione rifletterci attentamente e risponderle in maniera meditata. Mi occorrerà del tempo perché i miei tempi di scrittura si sono negli anni molto allungati, ma senz’altro lo farò. Intanto le posso chiarire che l’elenco puntato fa parte della decima poesia e non della nona (non mi ero accorto che aveva perso l’impaginazione) e che le 10 poesie sono una parte di un lavoro più ampio di circa 40 poesie che avrei titolato “Rumori di fondo”. Ancora grazie

Io: Gentile sig.ra Gramman, le rispondo con maggiore impegno alle sue osservazioni e considerazioni che ha voluto dedicarmi, che tutto mi sembrano tranne che provengano da un incompetente. Sicuramente quando scrivo il mio primo intendimento non è quello di condividere delle sensazioni ma di comunicare un punto di vista, della e sulla realtà, le sue contraddizioni e conflitti, rispetto ai quali scelgo una parte.

La prima considerazione sul tema intorno al quale ruotano le mie poesie mi ha fatto molto riflettere. In effetti è così ma non lo è sempre stato. Io vivo a Milano stabilmente da circa 10 anni. Prima ho sempre vissuto in realtà urbane molto più circoscritte, la provincia di Livorno e poi quella di Varese, con un rapporto molto più diretto con l’ambiente naturale. Le poesia di quegli anni, probabilmente anche per ragioni anagrafiche, erano molto più incentrate sulle tematiche ambientali, erano “fatte” di quegli elementi, esploravano il tema del superamento della centralità dell’essere umano (Leopardi delle Operette morali…), la sua relazione con le risorse.

Penso pertanto che il concetto di quanto la cultura si collochi come sovrastruttura non sia del tutto obsoleto, anzi. Al di la del mio piccolo e insignificante caso particolare, evidentemente la quotidianità plasma anche la ricerca artistica ed i suoi contenuti.

Non rinuncio a cercare un senso generale all’esistenza personale e storica, che non vedo scisse tra loro, ma allo stesso tempo rinuncio consapevolmente a trovarne uno che sia stabile. Il movimento è forse la condizione che determina la condizione umana ed è velleitario in quanto incapace (impossibilitato?) ad arrivare ad un punto fermo. Sul resto delle osservazioni le rispondo in grassetto nel corpo della email.

email Gramman precedente con le mie risposte: Gentile Sig. Chiarei,ora tocca a me scusarmi per il ritardo con cui le rispondo, dovuto in parte al sincero desiderio di “capire” il più possibile le sue liriche (quindi letture e riletture), in parte all’ordinaria e straordinaria amministrazione che ci si infila in mezzo. Cosa posso dire, da incompetente quale mi sento? Tenterò qualche osservazione sparsa, senza pretesa di organicità.
– E’ piuttosto evidente che sono lavori meditati, che fanno riferimento a una percezione non banale, strutturata e complessa della realtà – un campo scelto e “coltivato”, così come meditata e coltivata è l’attrezzatura metaforica approntata per dirlo. 
– Il lettore si trova in presenza di dieci testi che girano attorno a un unico tema: una disillusione urbano-consumistico-industriale che si allarga all’intera nazione, vista però quest’ultima come sostanziale rete urbana – marciapiedi, edifici, veicoli – ad esclusione quindi di natura/campagna (più o meno antropizzata), di idillio come prospettiva o come ricordo. Ci si chiede se i dieci testi costituiscano una specie di “poemetto”, cioè se si debba cercare dal primo al decimo un percorso, uno svolgimento, un inizio e una fine – per quanto provvisoria. Io ho cercato e non ho trovato, ma può essere un limite mio. Mi pare che non di svolgimento si tratti, bensì di dieci testi che delimitano una “palude” (storica più che esistenziale) nella quale il movimento non va oltre una velleità o un sogno un po’ ironico (“da grandi fare i palombari” – e notiamo che i palombari si muovono con lentezza e fatica). Con questo sarei già entrata nel merito del “contenuto”, anche se in realtà non volevo.  Se individuo come tema una “disillusione urbano-consumistico-industriale”, rischio di appiattire il suo lavoro su categorie già esplorate

> Non ho la pretesa di esplorare strade che non siano già state battute da altri per cui riconosco certamente i temi da lei individuati come portanti del mio lavoro.

e non dico l’essenziale: la scelta delle immagini, dei lati da illuminare, il “taglio” che di questo vuoto fa qualcosa di individuale e particolarmente connotato, irriducibile a un concetto generale. Ma proprio sul terreno delle immagini e dell’immaginario – di cui colgo almeno in parte il fascino – cominciano per me i problemi.

– Per partire terra-terra, non mi è chiaro il senso degli spazi all’interno dei versi: cesure ritmiche? indicazioni sintattiche? passaggio ad altro nucleo di immagini? semplici pause? E i trattini? Come vede sono ancorata a una specificità dei significanti molto probabilmente superata.

> Su questo piano cerco di dare ai contenuti che esprimono i miei versi la forma più adeguata, che non può essere quella delle forme chiuse intese in senso “classico” ma neanche la loro totale assenza. Per cui cerco di esprimere innanzitutto il suono non lineare, l’eco delle parole nella loro individualità e nel loro insieme del testo poetico. Non sono un avanguardista, ne neo ne post, tutt’altro, cerco di rappresentare sulla carta il ritmo e il respiro senza cercare facili scorciatoie nel concetto di performance che tanta poesia da intrattenimento oggi propone. Fortini in una intervista sosteneva che la poesia è identificabile come tale “…non viene solo dalle indicazioni per la scansione che sono date dagli a capo, dall’isolamento delle parole, ma anche da tutto il più vasto bianco della pagina e, per dirla tutta, anche dalla collocazione in una serie che ci permette di indentificare questa come poesia.” il bianco che circonda le parole insomma, e in questa definizione mi riconosco.

Passando invece al più interessante rapporto fra lettera e metafora, so bene che al più tardi a partire da Rimbaud il significato letterale è semplicemente scavalcato e al lettore si chiede il salto immediato nel metaforico. Tuttavia questo è il motivo per cui io con la poesia contemporanea – che non può procedere che così, è chiaro – ho i miei problemi. Se infatti la strofa: “Ora a terra qualcuno dorme ancora … faranno colazione” è piuttosto chiara, le “ginocchia senza occhiali”, “i filari delle genuflessioni”, “la rivoluzione dei sonetti”, “”le piume che tirano dadi” per dirne alcune, così come quasi sempre le connessioni fra sintagmi contigui, mi risultano enigmatici.

> Non credo che possa esistere poesia, e letteratura nel suo complesso senza metafora. C’è sempre qualcosa che richiama ad altro e che ci spiazza. Venendo agli esempi che lei propone mi conceda due parole di spiegazione:

– la metafora delle ginocchia sottende alla perdita della funzione di conduzione, allo spaesamento della miopia che dagli occhi si riflette nel corpo (oltre all’evidente assonanza che dava un ritmo)

– quella dei filari voleva richiamare alla postura comune delle “masse” di accettare passivamente la realtà senza turbarla come il panorama complessivo omogeneo che assumono i terreni coperti dai filari

– la rivoluzione dei sonetti è forse eccessivamente cerebrale e si richiama all’incontro con alcuni poeti, quelli della cosiddetta poesia sperimentale, che hanno rivisitato in chiave moderna una forma poetica usata da secoli. Forse è anche un ossimoro pensare che lo strumento “inventato” dal notaro Lentini possa essere strumento di rivoluzione. Anche se la vera rivoluzione deve avere radici ben profonde per non trasformarsi nel suo contrario.

– le piume e i dadi richiamano il caso, l’accostamento delle due immagini volevano sottolineare la dimensione effimera della vita anche quando si affrontano bivi e si sceglia da che parte andare o dove restare.

E’ per me il problema dell’arbitrarietà della metafora contemporanea e del sintatticamente ambiguo e non finito. Immagino di avere un approccio troppo analitico. Antonio Sagredo mi consigliava di non fissarmi sul singolo elemento ma di lasciarmi prendere dal flusso. E Paul Celan (come vede lei è in buona compagnia), a chi gli diceva (con qualche ragione) che le sue poesie erano incomprensibili, suggeriva di leggerle e rileggerle molte volte.

> mi pare che il confronto sia veramente eccessivo…due parole sul flusso a proposito di Sagredo. Da una parte è vero che in qualche modo la poesia che apprezziamo è quella che ci “prende”, ma difficilmente per un flusso insensato di parole puramente evocative. Questa mi pare è la dimensione della poesia intrattenimento, che non poca fortuna riscuote in questo periodo, alla quale non mi sento di appartenere e spero di non praticare. Dall’altra nella poesia di Sagredo non vedo un semplice gioco seduttivo per catturare il lettore ma una urgenza comunicativa (apprezzabile o meno, personalmente non sempre) che sempre conduce alla riflessione: ad esempio da “la Gorgiera e il delirio”:

"L'odio ha illustri antenati: 
volti gordiani, colori sfigurati.  
Sono giallastri ospizi e culle: 
succhiano bava, risibili ossa. 
Non mi resta che ebbrezza delle ceneri,  
fittizie profondità, disfatte crapule"

– Il suggerimento di Celan funziona: nonostante il permanere di certe difficoltà, e forse anche sotto l’influsso di un’attualità pesante, dopo diverse letture comincia a disegnarsi, direi quasi magicamente, il quadro di una contemporaneità in cui una serie di necessità vitali (peraltro sempre più ristrette) vengono ancora soddisfatte (“è possibile aprire l’acqua – da bere schivare le frane”, “le pantofole in gita     fuori porta / sono segno di tregua”), con un senso tuttavia di precarietà, di ‘chissà fino a quando durerà’, ma soprattutto di insufficienza, che però non sfocia sulla necessità di un’azione ma, rinunciatariamente, sull’attesa: “poi bere / del tè in fondo al mare    e poi – aspettare – poi”; o sull’illusione – quella mi pare davvero un’illusione – di poter sfuggire alla calma angoscia cambiando luogo: “ci basta cambiare la marcia / mettere la retro        uscire         andare via” – versi che a me suonano ironici. Ovviamente non c’è nessuna uscita per i “particulari”, se non l’uscita di scena definitiva, quella adombrata nei versi: “non si capisce quello che accade – altri / lo capiranno forse figli e nipoti     gli animali / ecco la tara di chi sopravvive”.

E’ vero che il senso della precarietà fa da trama costante ai miei versi e forse per questo spesso si ripetono, non delineando orizzonti operativi. Sta all’impoetico farlo, che intendo come la dimensione prevalente della vita quotidiana, quella della polis, dell’hic et nunc nella quale rivendico un impegno “militante”. In quell’ambito si può/deve ancora pensare in termini di prospettiva futura…in questo è veramente difficile se non impossibile.

– L’io lirico è transustanziato, programmaticamente e senza cedimenti, in un “noi” (faccio fatica, mi creda, a scrivere la parolina), il che non ne fa una poesia collettiva – per l’amor del cielo – ma situa la poesia in una dimensione collettiva che è anche una dimensione politica – e questo senza utilizzare (quasi mai, e quando avviene, è in modo molto discreto) categorie politiche o sociologiche e facili commozioni/indignazioni che lasciano il tempo che trovano.

> Non mi è chiaro che cosa intende per poesia collettiva ma, per quello che posso intuire, non lo troverei affatto offensivo se nelle mie poesie ci fosse anche questo aspetto. Mi colloco in ogni caso tra coloro che cercano di ridurre la centralità dell’io nella scrittura poetica. Penso che la registrazione che facciamo quotidianamente di ciò che è altro da noi, non è mai circoscrivibile alla nostra sola dimensione individuale. La “matrice” nella quale galleggiamo per me è storica: il fatto ad esempio di avere tempo io e lei per riflettere su queste cose, scriverne, scambiarcele non è un dato naturale ma determinato dal vivere un periodo storico preciso, in una area geografica specifica. Per questo il noi, sarà faticoso scriverlo senz’altro, è pur sempre una delle dimensioni con le quali è per me necessario il confronto, l’attrito, se serve lo scontro. E cercando comunque di stare lontano dalla retorica dell’impegno.

– Sulla rete orizzontale in cui si situano i suoi testi (stato della poesia italiana oggi, eventuali affinità, modelli, “debiti” ecc.) non posso purtroppo dire niente. Quindi questo è tutto, al momento.

 Ci tengo però a esprimerle il mio sincero apprezzamento per il suo lavoro.

> Non posso che ringraziarla. Ho anch’io un piccolo blog nel quale registro il mio percorso tra poesie e riflessioni tra politica e letteratura. Mi piacerebbe pubblicare, con il suo consenso, questo scambio di opinioni tra noi.

Gramman: Gentile Sig. Chiarei, la ringrazio della risposta, che chiarisce e approfondisce. Ribadendo, per quanto me ne rammarichi, la mia sostanziale estraneità alla poesia contemporanea, vorrei tuttavia a mia volta chiarire brevemente alcuni punti:

– “Penso pertanto che il concetto di quanto la cultura si collochi come sovrastruttura non sia del tutto obsoleto, anzi” .

Certamente la cultura sta sopra qualcos’altro, non fosse che il biologico e il genetico, che ritengo più “portanti” del biografico. Senza negare, ovviamente, che l’espressione sarà necessariamente concreta, cioè storica (ma presso le tribù amazzoniche prima della conquista occidentale, e quel poco che ne è rimasto dopo, probabilmente no).


– “Non ho la pretesa di esplorare strade che non siano già state battute da altri” 

Premesso che io volevo sottolineare l’originalità della sua “esplorazione”, mi chiedo se non si dovrebbe invece “avere la pretesa”. Poi magari non ci si riesce, ma la pretesa secondo me dovrebbe esserci.
– “Non credo che possa esistere poesia, e letteratura nel suo complesso senza metafora.” 

Sono perfettamente d’accordo con lei, e anzi penso che già la lingua, in sé, abbia carattere metaforico. Capisco anche che le metafore “facili”, come il sistema tonale tradizionale, abbiano a un certo punto esaurito le loro possibilità, costringendo i poeti a ricorrere a metafore inedite o “inaudite”. Il mio problema è che io con questo tipo di metafore ho dei problemi. Non ho però difficoltà ad ammettere che può essere, e anzi sarà certamente, una mia insufficienza.

– “Penso che la registrazione che facciamo quotidianamente di ciò che è altro da noi, non è mai circoscrivibile alla nostra sola dimensione individuale.”  

Tendenzialmente penso il contrario. Non ho la pretesa di pensare giusto, e sono perfino portata ad ammirare quelli che pensano diversamente, ma non posso nemmeno pensare quello che non penso (o percepire quello che non percepisco).
Pubblichi pure il nostro scambio di opinioni sul suo blog, non ho niente in contrario.