Autocoscienza (?) sulla poesia. Riflettendo…

di luca chiarei

Maria LaiOmaggio a Gramsci (particolare)
Museo Stazionedellarte Ulassai (NU)

L’atto dello scrivere, a qualsiasi livello di qualità si collochi, essendo orientato a veicolare un contenuto rivolto verso l’esterno, dovrebbe essere sempre eseguito in maniera assolutamente consapevole. L’autore dovrebbe avere chiari i propri obiettivi insieme al senso generale che vuole attribuire alla propria opera (magari un senso generale non è necessario…). A maggiore ragione se l’atto della scrittura è quello della versificazione, un gesto letterario che sembra progressivamente (inesorabilmente?) perdere di interesse e rilevanza generale, sfumando lentamente dal proprio perimetro di competenza. Senza consapevolezza, considerazione quasi banale per i più ma nel mio percorso imperativo necessario, la poesia invece che scritta è messa in scena diventando un gesto mimetico di altro, non corrispondente, non autentico. Con questo non intendo affermare che la consapevolezza è sempre garanzia del valore del risultato finale ottenuto; serve poi lo studio, la ricerca, il talento e dopo e soprattutto la critica letteraria e l’autocritica (militante?), insomma la dialettica tra le posizioni.

Nella mia personale ricerca ho trovato in questi mesi chiarificatore e guida il saggio di Davide Morelli su “Io e poesia di ricerca” pubblicato su Poliscritture lo scorso 11/3/2021 – al quale rinvio la lettura in quanto è la premessa per le mie riflessioni successive. Il saggio è dedicato al ruolo della poesia lirica e dell’io nel panorama generale della poesia contemporanea. Il tema probabilmente può apparire di nicchia ma così come è sviluppato è tutt’altro che circoscrivibile ad un aspetto, anzi, a mio parere credo che sia una delle questioni fondamentale e discriminante tra le “posizioni” possibili sulla poesia, sia per chi la legge che per chi, a qualsiasi livello, la scrive. Morelli incentra la sua riflessione analizzando il contributo dei cosiddetti poeti di ricerca, identificandoli in particolare nel gruppo che ruota intorno al libro “Prosa in prosa” ed.TLC, pubblicato in una prima edizione nel 2009 e ora ristampato e aggiornato nel 2020 con nuove e interessanti introduzioni e post-fazioni.

Questo “gruppo” mette radicalmente in discussione la poesia prevalente, a partire dalla riflessione teorica e nella prassi della scrittura; questo avviene dai due lati del tema: da una parte il senso del proporre oggi una poesia prevalentemente lirica, dall’altra il ruolo che assume l’io, quello dell’autore “protagonista” che quella poesia la scrive. Partiamo dalla questione dell’”io”: Morelli premette giustamente che:

È ovvio che bisogna guardarsi bene dagli eccessi del lirismo, come il narcisismo e il compiacimento. Su questo hanno ragione i poeti di ricerca, che sono salutari quando contrastano l’ipertrofia dell’io di diversi poeti lirici”,

aggiungendo tuttavia che la premessa di tanta poesia sperimentale di portare a riduzione estrema, se non all’ azzeramento assoluto, il ruolo del soggetto che scrive, insomma del poeta stesso, non solo sia priva di senso ma anche di fatto impossibile. In questo concordo con Morelli: non può esistere una affermazione/azione, fosse anche quella di negazione assoluta del soggetto, senza un soggetto che la compia. Un soggetto, l’io che agisce c’è sempre e dobbiamo farci i conti. La questione vera è prenderci le misure, esercitare una sorta di controllo su una soggettività che tende “naturalmente” ad ignorare perimetri definiti. Se fissare un obiettivo che non può essere raggiunto diventa una perdita di energia, allo stesso tempo l’assunzione di una funzione di auto-controllo sulla propria liricità e di riduzione della centralità del soggetto sia, in poesia, una operazione assolutamente salutare. Se dovessi scegliere a quale dei due “rischi” espormi, preferisco molto di più correre quello dell’ eccesso di “accantonamento” dell’io, piuttosto che continuare a percorrere le strade della poesia lirica novecentesca, anche quella più colloquiale e/o ermetica.

Forse non è del tutto fuori luogo parlare, in questo ambito, di “logoramento”, non intendendo affermare con questo che la lirica del 900 abbia perso il suo valore, ma solo contestualizzarla. Il sentire e il modo di esprimersi di un secolo fa, non può essere proposto e ripetuto in contesto storico – e soprattutto in una condizione materiale – oggi radicalmente mutata. Dunque il “rischio della “riduzione” del soggetto e la ricerca di superare la lirica forse può essere portatore di maggiori probabilità di rigenerazione, di percorsi poetici nuovi e diversi. D’altra parte nella poesia prevalente che oggi leggiamo sulle collane editoriali o nei luoghi della rete di maggior prestigio, il soggetto spesso dilaga, assume un ruolo centrale, il tono è lirico, con la sordina a volte, ma sempre orientato in quella direzione.

Qualche esempio di qualità, opinabile ovviamente, ma solo per dare concretezza ad una riflessione; Questi alcuni versi di Lamarque

“La mia superficie è felice
ma venga venga a vedere
sotto la vernice.
Quando spuntano
i Suoi sorrisi
diventano felici
le mie radici.”
da “Poesie dando del Lei" 

Oppure Maurizio Cucchi

“Seduto come un vecchio sul balcone
guardavo con invidia le volate
e poi le ricopiavo sul pavimento rosso.
Lei, forse offesa per la mia luna, mi diceva:
"Non c'è la mamma, ma è per poco.
Sembra che qui sei sulle spine,
ma perché?"
Maurizio Cucchi da “Il sonno del mattino”

Attingendo ad un altro livello ecco frammenti da vari autori tratti da alcuni gruppi di poesia che si trovano su Facebook (non me ne vogliano…)

“Quest’età che mi è arrivata all’improvviso
togliendo forza
alle ginocchia
e spargendomi
cenere sul capo, polvere
dipinta dal pennarello indelebile
del tempo…”
…….
“ancora lancinante mi
attraversa a ondate
la sicurezza
della tua tensione amorosa...”

Fermiamoci qui…allargando il ragionamento Morelli affronta la questione della poesia cosiddetta sperimentale. Nel descrivere questa tendenza Morelli la definisce come

“una scrittura che non va a capo e che viene percepita lo stesso da gran parte dei critici e dei lettori come poesia”;

curioso che nel libro in questione, “Prosa in prosa”, la post-fazione di Loreto affermi, in contrapposizione all’introduzione di Giovannetti, che quello che il libro contiene è…prosa…e non poesia. In fondo quest’aspetto formale del non andare a capo ci riporta all’inizio della nostra tradizione poetica, ai manoscritti che hanno tramandato ad esempio le poesie dei siciliani nei quali, secondo quella che evidentemente era allora la sensibilità dei contemporanei, non si andava a capo alla fine del verso ma della strofa ed il verso era separato a volte solo da un puntino. Quindi la poeticità del testo era principalmente avvertita non tanto per il “gioco” tra bianco e nero ma per le forme retoriche utilizzate ed i contenuti lirici che erano avvertiti come “alti”. Dunque la sperimentazione più avanzata riprende le forme più antiche della nostra tradizione? Dato lo spessore intellettuale degli autori chiamati in causa si può ritenere che la coincidenza non sia del tutto casuale.

D’altra parte la poesia non può che essere una forma d’arte strutturalmente ambigua: ogni definizione riflette la provvisorietà del momento storico nel quale essa si afferma, senza che possano darsi sicurezze estetiche e/o di forma. Penso che la poesia e la letteratura sono manifestazioni della sensibilità umana e per questo non possono che essere determinate storicamente; in questo senso la sperimentazione è un elemento strutturalmente connesso, da secoli, con lo sviluppo della scrittura. E’ quasi banale affermare che i classici di oggi, Leopardi, Pascoli, siano stati gli innovatori e sperimentatori di ieri. Senza la spinta alla innovazione ed il rischio della sperimentazione (anche l’avanguardia può essere manierista) la poesia finirebbe con ripetere se stessa.

Quella che circola spesso ripete schemi ormai consumati, è priva di una spinta ad un cambiamento, non si fa interrogare dalla realtà. Perchè non “scommettere” che un’altra poesia, traslando dalla politica, sia possibile? Altra cosa invece è discutere gli esiti della sperimentazione, che può diventare manierismo, gioco mimetico, nicchia autoreferenziale.

L’operazione di “Prosa in Prosa” analizzata da Morelli mi pare invece piuttosto articolata: nello stesso testo ne convivono di varia natura, dalla “recensione” alla poesia/poesia, con la “P” maiuscola, dagli elenchi ai frammenti che diventa praticamente impossibile citare qualcosa che sia esemplificativo, sintesi dell’insieme. Scelgo il testo “0.33 secondi” di Marco Giovenale:

“ciclicità dell'anno. con l'augurio che l'anno nuovo sia questo e questo come si
usa è il disegno si fa più ambizioso. mi fece pensare e riflettere parecchio.

bravissimo che vivi a barcellona, hai studiato in svezia, ti chiami lavinia , stai
a bologna, perdi la memoria, sei la nipote più grande, sei felice, sei infelice,
sei luisa sanfelice, hai dosato l'impatto dei farmaci, riesci sempre a cavartela,
ne combini di cotte e di crude, vedi il film per non perdere lo spazio, in effetti
non perdi per questo il contatto con la realtà.”

Riprendiamo ancora il testo di Morelli sulla questione della tendenza alla riduzione, se non una vera e propria “distruzione” dell’io, ma anche della possibilità di rappresentare con la parola e superare la distinzione significante/significato. In questa direzione credo che il gruppo di autori che fanno riferimento al blog “L’ombra delle parole”, abbia portato al limite e oltre questo orientamento. “Portavoce” e animatore del blog nonché teorico della cosiddetta nuova ontologia estetica con le sue derivazioni: la instant-poetry, la kitchen-poetry ecc. è Giorgio Linguaglossa che esplicita, anche se in modo per me a volte criptico e oscuro, con queste parole il senso dell’operazione:

“La «nuova ontologia estetica», almeno questo è il mio pensiero, non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.

In che senso si parla di deriva epigonica risulta chiaro da questo passaggio sempre di Linguaglossa:

“Il risultato è stato che la poesia italiana, dopo Zanzotto, si avvierà per un sentiero epigonico di matrice unilineare di derivazione pascoliana. Espunte la metafora e l’immagine dalla testualità la poesia italiana del secondo novecento resterà e resisterà sì su un pedale basso, ma oblitererà il pluristilismo e il multilinguismo per optare per la narrabilità, la cantabilità e la comunicazione di un presunto messaggio in bottiglia o in vitro che dir si voglia. La susseguente ricerca della «comunicabilità» e della «narratività» a tutti i costi renderà un pessimo servizio alla poesia italiana del secondo Novecento. La lacuna che appare oggi vistosa, ci pone degli interrogativi, mi chiedo se la poesia italiana sia oggi in grado di formulare una diagnosi critica di questo quadro problematico fisiologicamente «patologico»; la risposta non può che essere negativa: la koiné poetica maggioritaria ha adottato una procedura securitaria, ha adottato da almeno cinque decenni un concetto narrativo e unilineare del discorso poetico, una koiné poetica di tipo derivativo e posiziocentrico.”

Dalla Nuova Ontologia Estetica il ragionamento, che attraversa in profondità la riflessione filosofica sulla possibilità di leggere ed interpretare il reale, si genera la cosiddetta “Poetry Kitchen”:

“La poetry kitchen ha in sé una forza tellurica dirompente perché viene agita e agitata da un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind, un gioco di citazioni dei linguaggi del mondo delle emittenti linguistiche («lo stato di cose esistente» di Marx in versione linguistica) che intende sovvertire la lettura normologante di quel mondo.”

Da queste premesse, solo parzialmente riassunte, gli esiti che ne derivano li ritengo comunque interessanti, spiazzanti forse, ma testi che interrogano, obbligano ad una lettura attenta e provocano, ribaltando la logica del discorso piano, un processo di apprendimento nel lettore:

“Latte di mandorla con ghiaccio sui tavoli del “Cafè de la guèrre”.
Lamarmora e Mancini decidono la formazione per la trasferta di Magenta.
“Sarà importante mantenere l’equilibrio tattico.
Dal nostro ombrellone vista-mare sapremo guidarvi all’immancabile vittoria”.
“Se avessi previsto il Narodni Dom, non avrei dipinto “Il Bacio””
confidò Hayez alla Signora Päffgen in una camera del Chelsea Hotel.
Il caffellatte nello scaldavivande in un ufficio della Zentralstelle in Wien.
Eichmann arriva di primo mattino canticchiando “Rhapsody in blue”.
“Il grande bulino è già in azione. Non pioveva sabbia da secoli
sul Danubio,
ma abbiamo già fatto saltare in aria il rapido 904 con le rane a bordo”.
Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.
A Theresienstadt in inverno si sta come in primavera.
“Si sieda rabbino; posso offrirle del latte nero?”
Vincenzo Petronelli “Fragmenta historica”
Prospettive invernali come in Utrillo.
Mancano dati sulle ballerine. Fotocopie sbiadite.
Ho registrato Il libro che mi avete chiesto.
Via camera. In definizione. Prego.
Respira due tre volte con coscienza.
Palpebre pesanti, occhi chiusi.
– Interno di antica costruzione. Ombre in controluce.
A muoversi è un gruppo di ballerini, in costume di plastica
o pelle blu, con brillantini.
*
Due filosofi mangiapreti (fermi al trauma
della prima comunione?), si dissero contenti
del cammino fin qui intrapreso.
Non capitava da anni, e nemmeno da giorni.
Lucio Mayoor Tosi 

Per quello che sono riuscito a comprendere frequentando il blog e riflettendo su questi testi mi pare di rilevare una contraddizione tra la volontà di rinnovare la poesia italiana, soprattutto nei suoi contenuti, e una scrittura in versi, che sembra asemica, semplice fotografia di un reale definito come indicibile. Quello che alla fine emerge è l’accettazione della realtà così com’è, di cui si fa la cronaca della sua oggettiva decadenza, registrandone la generale entropia morale, alla quale non si vuole/può opporre più niente.

In questo panorama di opzioni definito seguendo il saggio di Morelli, il mio percorso – ebbene si, usiamolo questo io…- si orienta su alcuni punti d’”appoggio”.

Il primo, ovvio ma non per tutti, che mi ripeto quotidianamente, è la scrittura a cui arrivare solo dopo avere studiato, attraversato, conosciuto e messo radici, nella tradizione letteraria che ci ha preceduto; portare su di se, nella propria parziale e marginale scrittura, questa eredità nei termini di una storica e intellettuale consapevolezza.

Da questo deriva da una parte la mia lontananza dalla poesia narrata come fosse una sorta di religione laica, con i propri cerimoniali e riti di intrattenimento colto. In questa declinazione la critica militante è solitamente vissuta come un fastidio che incrina l’armonia dei vari convivi; dall’altra il rifiuto dell’idea che scrivere versi sia frutto di una ispirazione che si muova dall’esterno del proprio io, che si possa e debba intercettare con le antenne sempre più raffinate e “sensibili” del “cuore” o dell’”anima”;

Quello che mi spinge oggi a scrivere non è tanto la ricerca e la rappresentazione della bellezza nella versificazione. O meglio, se anche questo avviene non me ne dispiace ma, in realtà, quello che cerco di rappresentare nella forma e sostanza, sono le parole del rumore di fondo nel quale siamo quotidianamente immersi. Quel rumore di fondo che ho letto rappresentato in maniera esemplare in “Viaggio nella presenza del tempo” di Giancarlo Majorino. Una opera estremamente impegnativa nella quale, tra i molteplici aspetti, mi permetto di ravvisare anche questo:

capannoni posterie primizie cartelloni
	tabacchi-bar     conchette polverose    aie   con esseri-mucche
granoturco panorama afose paleocase
		di piano uno o cantoniere a semicupio
		intorno certe spelacchiate piazze    companchine
				vero centro un giorno!
			Cartelli di divieti, di, dì  vieti, di “affitasi”, cespugli
				riduzione di velocità    prima d’ogni abitato
					prendendo una stradina di uccellini    mo’
						di bici retinate, sentieri, un abbaiare
		dove angolava la ferrovia locale oggi chioschi smeraldo
	il cimitero tornando nel traffico tramite un ponte
			su acqua lenta	erba in attesa	di
				costruzione? Il confine dell’erba    prosegue
lamiere fieno concime baracche mattoni
				e apparecchi grigiastri	a scardinare
								i paesi cosmo strano
	campagnoteche verso lo zero: migràre

Un rumore che non è fatto solo dai suoni dell’urbanizzazione ma dal silenzio anestetizzato che ci assorbe, davanti allo schermo di turno. L’assuefazione a questo rumore, che finiamo per non sentire più, è quello che alla fine determina le nostre condizioni materiali di vita – vogliamo chiamarlo stile di vita?, ma anche le nostre scelte (?) quotidiane, le relazioni tra le persone, siano essi assunti come individui che come classe/gruppo sociale. E’ il rumore di fondo nel quale si sviluppa la politica contemporanea nelle sue attuali forme evanescenti e subordinate al dominio dell’economico. Io penso, oggi, che tutto questo abbia molto a che fare con la poesia e riuscire a trasferirlo in versi efficaci, prosa poetica, prosa in prosa, è la sfida che nel mio piccolo mi sento di consumare.