
Sono passati ormai 2 anni da quel 7/ottobre/2023, una data destinata a segnare una svolta: quella della fine di una condizione etica e politica generale nella quale fino ad oggi eravamo illusi di stare vivendo. E’ quello che ora ci propone l’insostenibile drammaticità della crisi di Gaza, le cui radici si collocano ben prima del “fatidico” 7 ottobre, ovvero nella genesi di un conflitto e nella nascita di uno stato, Israele, che concepisce la risoluzione dei conflitti con la soppressione fisica di tutti coloro che, per appartenenza di popolo o orientamento ideologico-religioso, non tanto si oppongono ma chiedono semplicemente uno spazio di convivenza. Un conflitto che ben prima di quella data aveva costruito tutte le premesse politiche a quanto accade oggi.
Da quella data è iniziato il continuo succedersi quotidiano di notizie legate all’azione dell’esercito israeliano, non tanto nei confronti di Hamas ma del popolo palestinese: la inarrestabile conta dei morti, dei feriti, delle famiglie spazzate via, dei bambini, delle donne, delle persone uccise sotto i bombardamenti, prese a cannonate, finite negli ospedali o prese per fame. Morti solo per la appartenenza ad un popolo, ad una etnia, ad una religione. Quotidianamente si è alzata sempre di più, e tuttora si alza, l’asticella delle crudeltà, dei crimini di guerra, del sadismo istituzionale, delle atrocità nei confronti delle persone e di tutte le strutture della società palestinese. Non è risparmiata alcun tipo di infrastruttura civile, dalle scuole agli ospedali e poi le tendopoli, l’informazione, l’acqua, i medicinali, l’approvvigionamento dei beni essenziali per la sopravvivenza meramente biologica di un essere umano.
Per mesi questo è avvenuto nella sostanziale indifferenza generale da parte della maggioranza delle forze politiche, degli stati, della cultura e della società civile, come se in fondo da Israele questo dovevamo aspettarci e tollerare (quante volte è successo in questi anni e prima di oggi). In fondo qualche migliaio di esseri umani in meno, anche decine di migliaia, era il prezzo da pagare al mantenimento degli equilibri politici interni ed internazionali. Il passato storico dell’olocausto autorizzava la tolleranza ad azioni politiche e di guerra portata ben oltre i confini nazionali, che normalmente sarebbero inconcepibili se a metterle in atto fossero altri stati. E molti commentatori che finalmente oggi spendono qualche parola di critica al governo di Israele, lo fanno dal punto di vista degli eccessi compiuti, come se ci fosse una misura di morti e distruzioni comprensibile e giustificabile.
Da quella data non sono mancate iniziative di ogni tipo della società civile: abbiamo marciato, manifestato, fatto cortei, fatto casino, esposto lenzuola, raccolto firme, boicottato, senza il minimo risultato concreto, anzi. Forse dal 7/ottobre chi semplicemente crede nella banale “ipotesi” che ogni persona sia uguale all’altra, sia portatrice dei medesimi diritti e doveri, che per ogni persona si possa e si debba esercitare l’empatia per la sua sofferenza, oggi non ha quasi più spazio. Da quel giorno chi ha ancora queste convinzioni si deve misurare quotidianamente con l’escalation delle atrocità, con l’esondazione del dolore e la propria capacità di contenerlo.
Quando si è pensato di avere raggiunto il punto oltre il quale non è più possibile andare, ecco che il giorno successivo è superato, in una continua galleria senza fine degli orrori. E’ difficile non vedere in tutto ciò anche una strategia comunicativa finalizzata a sfiancare l’attenzione e la reazione della società civile, ad indurre alla fine a girare lo sguardo da un’altra parte, noi che un’altra parte dove guardare ancora ce l’abbiamo.
Non lo scopriamo certo con il 7/ottobre ma quello che è accaduto e sta accadendo da quella data ci mette davanti alla realtà che nessun principio, progresso sociale, diritto umano è acquisito e consolidato. L’idea che la storia proceda lungo una linea che da una società “selvaggia” ci conduce ad una società migliore e sempre più umana, se è mai esistita, si è dissolta. Dalla fine della IIa guerra mondiale diverse generazioni come la mia, hanno creduto che la storia si dipanasse lungo un percorso più o meno lineare, che dal punto A ci avrebbe portato al punto B. E questo sia da parte di coloro che assumono una concezione materialistica della realtà: la realizzazione del socialismo/comunismo; sia religiosa: la salvezza dal peccato, solitamente individuale. Ebbene, così non è. I trattati di pace, quelli di non proliferazione, gli organismi internazionali, l’ONU, il diritto internazionale con i suoi organi ecc. ecc., si iscrivevano in un percorso che avrebbe portato all’affermarsi della pace e della giustizia quasi per un moto naturale della storia. Già la riflessione ecologica con le leggi della termodinamica e dell’entropia aveva evidenziato in questi anni quanto poteva essere errata una simile concezione. Oggi la vicenda di Gaza dimostra che non esistono più premesse comuni universali e che nessun diritto internazionale può affermarsi se non c’è una forza, non solo politica, che lo sostenga. C’è solo il presente con la legge del più forte.
Nessun Raskol’nikov, il personaggio di Delitto e castigo di Dostoevskij, si pentirà in nome di una umanità comune. C’è solo da lottare e resistere finché sarà possibile.

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