…è il numero delle vittime Palestinesi stimate dal 7/ottobre/2023 secondo varie fonti internazionali tra cui ONU, Ong, CRI, Mezzalunarossa ecc., arrotondato ovviamente per difetto. Un numero, lo sappiamo da 4 mesi, destinato ogni giorno ad incrementarsi e fatto al 50% da bambini. Non so quale sia il numero che deve essere raggiunto perché la comunità internazionale, ma direi la comunità degli umani, si renda conto che si sta consumando un genocidio: 100.000? 1.000.000 ? Ho anche fatto fatica in rete a trovare un numero preciso, segno che questa contabilità con il passare dei giorni diventa sempre più problematica, per non dire che sta producendo una sorta di assuefazione emotiva.

Si potrebbero aggiungere ancora tanti altri dati sulle distruzioni, sui massacri, sui feriti e mutilati, conseguenze di un conflitto di cui possiamo dire tutto, ma certo che non è iniziato il 7/ottobre dell’anno scorso. Neanche voglio in questa sede fare l’ennesima ricostruzione storica di come siamo arrivati a questo punto. Non perché non siano necessarie, tutt’altro, ma perché non sono uno storico e la mia conoscenza della questione nella sua complessità non me lo consente. Tanti altri meglio di me lo possono fare e lo fanno.

Non sono questi i punti che voglio affrontare.

Il primo è la domanda che mi faccio quotidianamente sul mio essere sempre più sconcertato e allibito per il genocidio quotidiano che si perpetua in Palestina, senza che questo provochi una reazione proporzionata alla sua drammaticità: sta diventando una mia “ossessione” personale e dolorosa ma senza alcuna oggettività? Eppure in tante altre situazioni drammatiche, ma oggettivamente di proporzioni minori rispetto a quello che sta accadendo (per quanto ogni vita persa di qualsiasi uomo sia sempre un dramma), intellettuali, scrittori, poeti, “influencer”, istituzioni culturali si sono spesi autorevolmente con la propria parola, prendendo posizione; questo oggi in larga maggioranza non avviene, determinando di fatto l’adeguarsi generalizzato ad un sostanziale silenzio che da indifferenza diventa consenso. Nella mia piccola esperienza personale penso ad esempio ai blog di poesia e critica che frequento – li trovate su questo blog alla pagina “frequentazioni” -, che pensavo mi avrebbero sommerso di versi e riflessioni sul tema e invece per molti sembra proprio che non stia accadendo niente.

La seconda domanda è se la contabilità di questo genocidio quotidiano ha fatto si che non esiste più, a tutti i livelli del sentire umano, un livello di guardia etico o morale per il quale si possa dire: oltre non si può andare? La cultura italiana, la società civile come la politica di questo governo, non reagisce in alcun modo ad un evento che ormai non ha più, e non può averla, alcuna giustificazione. Qualcuno potrà dire che non parlo di Hamas, degli ostaggi, del terrorismo palestinese: ebbene si è vero, in questa sede non ne parlo volutamente per chiarezza della mia posizione: 28.000 morti, frutto di una azione politica di uno stato che ha l’obiettivo dichiarato di andare avanti fino alla soluzione più radicale, non possono avere alcuna giustificazione, etica, morale, politica e geo-politica. E se questo per qualcuno significa essere anti-semita (critica che rivolta alla mia persona mi fa sorridere), ne prenderò atto.

La terza domanda conseguente è se questo accade perché è’ evidente lo stallo della diplomazia internazionale attraverso la quale non si apre alcuna prospettiva di pace, neanche quella di un semplice “cessate il fuoco”? perché è evidente che petizioni, appelli, firme, condanne ecc. che possiamo sottoscrivere, come le manifestazioni a cui possiamo partecipare, non incideranno minimamente sul conflitto in corso e lasceranno sul piano pratico il tempo che trovano? Eppure in situazioni analoghe queste considerazioni non hanno impedito alla “società civile” di mobilitarsi: pensiamo alla guerra Russo-Ucraina, tuttora in corso nonostante le varie mobilitazioni e previsioni, dove è avvenuto esattamente il contrario sul piano della mobilitazione intellettuale e politica.

C’è allora un dato di fondo che emerge da queste drammatiche vicende che ci attanagliano, anche geograficamente, è che può spiegare questa rimozione collettiva? Io penso che la mia generazione, nata negli anni 60, si è relazionata con la guerra come un evento che pensava di essere riuscita a contenere, a ricondurla all’interno di istituzioni internazionali che avrebbero dovuto “governarla”, all’interno di una cornice di generale condanna. Invece è ritornata, si è presa la scena principale, ha recuperato la centralità che secoli di storia gli hanno sempre attribuito. Non è più l’ultima ratio quando tutte le altre strade sono state percorse, non è più limitata alla sola difesa, come recita inascoltata la nostra costituzione: è tornata ad essere strumento praticabile di risoluzione dei conflitti secondo la logica del più forte. E’ questo l’imbuto in cui stiamo cadendo.

In una discussione con amici qualcuno si domandava perché non impariamo dai nostri errori? io mi chiedo invece: gli errori di chi? qual’è il soggetto? Pensare alla storia collettiva come una estensione di quella individuale, capace di fare tesoro delle proprie esperienze, non ha molto senso. La storia è un altro livello di esperienza collettiva nel quale, anche per il ricambio generazionale, è sempre più problematico la conservazione consapevole del proprio passato e memoria di quanto non dovrebbe più ripetersi.

Infine come può avvenire tutto questo dopo decenni nei quali si succedono, giustamente, giornate dedicate alla memoria degli olocausti, genocidi, massacri? Ho letto una interessante riflessione dello storico David Bidussa che metteva in evidenza che avere messo la lente dell’attenzione sulle vittime, non ha analizzato con la stessa attenzione i processi politici, culturali e organizzativi che hanno resi possibili le stragi del secolo breve e di questo. E’ relativamente semplice solidarizzare con le vittime (già più difficile non distinguerle…), mentre è più problematico riconoscere il ripetersi di quei processi che hanno portato a quegli esiti. Poiché quei processi, se da una parte sono fondati sulla repressione del dissenso, dall’altra si alimentano e rafforzano, soprattutto, sull’indifferenza dei molti, sulla loro capacità di girarsi dall’altra parte. Ed è proprio questo che, come un secolo fa, oggi si ripete mentre parliamo d’altro tra canzonette, partite di calcio e il tempo che cambia…

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4 risposte a “25.000…”

  1. Avatar Gian Marco Martignoni
    Gian Marco Martignoni

    Ignacio Ramonet nell’intervista ” L’obiettivo è hackerare l’individuo con un misto di guerra psicologica e di guerra dell’informazione”, sostanzialmente mette a fuoco i caratteri di quella guerra cognitiva che accompagna qualsiasi guerra reale. Abbiamo, con le forze residue a disposizione – penso a Genova nel 2001 - tentato di contrastare il dominio del pensiero unico. ma oggi - per tante cause e concause – siamo ben oltre il pensiero unico. E’ vero che non ci sono più i Franco Fortini e i Luigi Pintor, ma comunque sappiamo da che parte schierarci, poichè quando sono sceso in piazza a Varese, ho potuto verificare la forza e la lucidità, oltre che il dolore, delle nuove generazioni del sud del mondo.

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    1. Avatar luca chiarei
      luca chiarei

      Vero, siamo ben oltre il pensiero unico…

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  2. Avatar Lucio Mayoor Tosi

    Caro Luca,
    anche tu se vuoi parlare di politica devi ricorrere all’articolo, non ne fai una poesia. Per me poesia mal si presta come mezzo per qualsiasi cosa. Per il resto sto malissimo, come te, come tutti. Ma è vero che l’unico mezzo che abbiamo per farci sentire è la parola.

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    1. Avatar luca chiarei
      luca chiarei

      Ciao Lucio, grazie come sempre. Anch’io sto molto male per quello che accade e sono d’accordo che ci resta solo la parola…per quanto riguarda la poesia, l’ultima che ho scritto è ispirata a questo argomento e la trovi nei post precedenti dal titolo “potremo dire d’esserci”.
      Forse non è riuscita, certo, ma non credo che ci siano temi impoetici, che è anche il tema di una discussione infinita, per me sempre da fare. Grazie ancora.

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