Che cos’è la poesia

di luca chiarei

“Uomini fummo e or siamo fatti sterpi” opera su stoffa, collage di carta, fili e ricamo di Cristina Ghiglia che ringrazio

Dal Blog di Franco Arminio riporto un intervento del 18/9/2017  che mi ha fatto riflettere:

1. La poesia è una forma di pentimento. Tentiamo di farci il bene dopo che ci siamo fatti del male.
2.La poesia è il corpo che decide di parlare, è un’insurrezione della carne.
3.La poesia viene sempre da un confine, non è mai centrale.
4.La poesia è sguardo messo ad asciugare. Lo sguardo messo ad asciugare diventa parola.
5.La poesia non si fa con le tue parole, non ne hai. E non si fa neppure con le parole degli altri, non ci servono.
6.La poesia è un fallimento con le conseguenze migliori, ma è comunque un fallimento.
7.La poesia non c’entra niente con le cose che si capiscono e neppure con quelle che non si capiscono.
8.La poesia è un messaggio che viene dal corpo, una fitta dietro l’orecchio, un’arancia nascosta dietro un ginocchio, il fegato che chiede acqua, una piccola vela nella testa.
9.La poesia non sa e non deve sapere. La poesia deve vedere.
10.La poesia è un’intimità provvisoria col mistero. La poesia se ne va, resta il mistero.

Certamente se rivolgessimo la domanda che pone Franco Arminio a 100 poeti o a 100 lettori di poesia, riceveremmo 200 risposte diverse. E se questo lo possiamo ritenere inevitabile e legittimo in quanto le diversità non possono essere “compresse” o censurate, allo stesso tempo non possiamo limitarci a prenderne semplicemente atto. Al contrario di un orientamento prevalente che in nome della diversità da “valorizzare” accetta qualsiasi opinione in merito alla poesia senza discuterne, io credo che sulle risposte possibili si debba ragionare perché non tutte sono equivalenti e alcune possono essere più convincenti di altre.

Se così non facessimo ci limiteremmo all’affermazione banale che in fondo tutti i gusti sono gusti, affermazione condivisibile se parliamo di cibo da mangiare, molto meno se parliamo di cultura, arte, produzione artistica in generale.

Apprezzo molto l’opera culturale di Arminio, i suoi libri come il suo blog che ho recensito in questo spazio insieme al link a cui rimanda, e le iniziative di cui si fa promotore; credo che dia voce ad una parte del paese che non ha alcuna rilevanza nei circuiti economici e culturali dominanti. E insieme apra delle prospettive culturali interessanti che in qualche modo reagiscono, non limitandosi a subirla, alla crisi del presente.
Nonostante ciò, o forse proprio per questo, questa riflessione sul senso della poesia l’ho trovata spiazzante. Intanto per il suo contenuto generale dal quale emerge una idea di poesia come una sorta di entità misteriosa, oscura ed esterna alla realtà ordinariamente percepita. In sintesi mi è apparso rientrare in quel filone particolarmente fecondo, soprattutto nei media generalisti, per il quale parlare di poesia significa avere a che fare con una specie di particolare religione, laica, ma pur sempre religione.

Non vedo quale altro senso sia possibile attribuire alle considerazioni finali: “La poesia non sa e non deve sapere. La poesia deve vedere. La poesia è un’intimità provvisoria col mistero. La poesia se ne va, resta il mistero.”
Di quale mistero si tratta? E se è così allora con la poesia non si può dire e comunicare niente se non sensazioni o emozioni? Sembrerebbe di si se si afferma: “La poesia non si fa con le tue parole, non ne hai. E non si fa neppure con le parole degli altri, non ci servono.” Dunque fino ad oggi nessuno ha scritto poesia e se lo ha fatto è stato solo in virtù di stati modificati della coscienza o sotto l’influsso di ispirazioni che dal cielo, dalla natura selvaggia, dallo “spirito” sono scesi sulla terra?
Non vorrei apparire come un “teorico” dell’arte di matrice “illuminista” o razionale: è quasi banale dire che ogni espressione artistica trasforma la realtà e la rielabora e non è solo il prodotto di una semplice capacità tecnica, che pure si deve possedere.
Allo stesso tempo credo che per scrivere poesia si debba avere una idea, una concezione della realtà e dei contenuti che si intendono comunicare.
Se penso alle massime realizzazioni poetiche nella nostra tradizione letteraria, dalle quali non è possibile prescindere anche nella nostra contemporaneità, come ad esempio la Divina Commedia di Dante, non siamo forse in presenza di un viaggio che è anche un percorso di vita – pianificato dal primo all’ultimo verso – con il quale il poeta interpreta il suo tempo nel quale è pienamente calato e lo giudica, lo analizza e propone la sua idea “politica” di cambiamento? E nello Zibaldone Leopardi non afferma in vari passi che la poesia nasce da una precisa concezione filosofica, anzi, che la poesia è un modo per declinare una concezione filosofica: poesia e filosofia per Leopardi sono ”…le facoltà le più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi ne l’uno ne l’altro non può esser nel gener suo ne perfetto ne grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere…”(Zibaldone). Una posizione difficilmente conciliabile con l’affermazione che “La poesia è un messaggio che viene dal corpo, una fitta dietro l’orecchio, un’arancia nascosta dietro un ginocchio, il fegato che chiede acqua, una piccola vela nella testa.” Belle immagini certamente, ma per dire che cosa…?

In questa concezione para-religiosa della poesia che mi pare emergere da questo decalogo, il poeta oggi diventa una sorta di sacerdote privilegiato che si offre al giudizio del pubblico (slam poetry?…) oppure al suo intrattenimento colto (reading…?) e lo fa con cerimonie e riti precisi – si legge di poesie bruciate nel fuoco, appese per le strade, agli alberi…- con i quali annuncia le sue indiscutibili verità al mondo.
“La poesia è il corpo che decide di parlare, è un’insurrezione della carne.” In che senso? Dobbiamo tornare a contrapporre il corpo e l’attività della mente? E perché? Per quale motivo la carne dovrebbe insorgere? La consapevolezza di se non è una condizione possibile nel quale entrambi questi momenti possono convivere e tutto questo non può diventare poesia?

Mi è poi capitato tra le mani l’ultimo libro di Poesie di Arminio “Cedi la strada agli alberi” ed. Chiarelettere e lo spiazzamento è continuato. Mi aspettavo che riflettessero lo spirito di questo decalogo ma non è esattamente così. A parte le poesie della sezione più intimista “Poeta con la famiglia”, nella quale Arminio si rivolge attraverso se stesso alle relazioni personali intessute negli anni, comunque con risultati profondi

“Io recrimino sul mondo
sempre più sfinito e astratto
mio padre non pensa al mondo
ma solamente al pianto”

Poesie come “Pietrantonio” e quelle rievocative del terremoto e versi come i seguenti, che stralcio da vari testi, hanno poco di misterioso e/o mistico arrivando con diretta evidenza e precisione non solo al cuore ma anche all’intelligenza del lettore:

“la tavola del mondo è inospitale.
Un dio barbaro getta i sassi
dal cavalcavia”

“venticinque anni dopo il terremoto
dei morti sarà rimasto poco
dei vivi ancora meno”

“l’Italia di oggi
ha perso miseria e garbo,
ha perso l’altezza e la bassezza
è tutto un viavai di pensieri
a mezz’aria”

E lo fanno in forza della parola che serve, eccome se serve, a declinare una riflessione personale sulla realtà che deforma lo spazio che circonda Arminio e tutti noi. In questo senso speriamo che ci siano ancora alberi a cui cedere il passo, altrimenti andiamo a piantarli, anche quella sarebbe poesia urgente, forse…